Un manifesto urbano che profuma di pane firmato Keit.
KEIT FRIEDRICHSHAIN - PH FRANZ GRÜNEWALD
C’è un luogo a Berlino dove il profumo del pane racconta molto più di una ricetta. Si chiama KEIT, e il suo nome è oggi sinonimo di un nuovo modo di intendere la panificazione — e, più in profondità, di abitare la città. Qui, ogni pagnotta è una dichiarazione di intenti: tra artigianato e innovazione, tra radici e futuro. Un pane che nasce da ingredienti coltivati entro 100 chilometri, dal Spreewald all’Uckermark, per restituire al territorio il senso di una filiera corta, consapevole, e al tempo stesso sofisticata. KEIT non è soltanto un panificio, ma un manifesto urbano. Dietro ogni lievitazione si intrecciano perfezionismo, scienza e responsabilità. Preferiscono definirsi come un variopinto collettivo di cuochi, ingegneri, storici dell’arte, sociologi e fondatori che lavorano insieme per creare un pane che racconti la città — il suo ritmo, la sua energia, la sua diversità.
Un “pane di Berlino, per Berlino”. Il loro motto non è marketing: è metodo.
KEIT FRIEDRICHSHAIN - PH FRANZ GRÜNEWALD
KEIT FRIEDRICHSHAIN - PH FRANZ GRÜNEWALD
KEIT FRIEDRICHSHAIN - PH FRANZ GRÜNEWALD
KEIT SHÖNEBERG - PH FRANZ GRÜNEWALD
Ogni giorno il laboratorio si apre alla città come un piccolo ecosistema urbano, dove si incontrano clienti, chef, artisti, fermentatori e ricercatori. Tutti legati dalla stessa urgenza: una cultura del cibo radicata, locale, sostenibile.
“E, naturalmente, ci colleghiamo anche con le persone con cui e per cui facciamo tutto questo. Persone che scelgono consapevolmente il nostro pane e danno forma alle cose insieme a noi. Che condividono i nostri valori e apprezzano il valore del nostro prodotto. Chi assaggia il nostro pane, ne assapora le origini e forse scopre una nuova casa.” - raccontano i founder Kolja Orzeszko e Thanos Petalotis.
KEIT ci ricorda che ogni fetta di pane può essere un ponte tra campagna e città. Non per tendenza, ma per convinzione: scegliere ingredienti locali non è una moda “hipster”, ma un gesto politico, concreto, quotidiano. Ogni pagnotta diventa così una mappa sensoriale di Berlino e del suo paesaggio, un racconto di suolo, agricoltura, stagioni. Design minimal, luce naturale, materiali grezzi caratterizzano i tre store in città. Il grano cresce letteralmente all’interno dello spazio, come promemoria del ciclo vitale da cui tutto parte.
KEIT non parla solo di pane, ma di come vogliamo vivere, di quale città e futuro vogliamo costruire insieme.
Accanto alla produzione quotidiana, KEIT offre risorse e workshop per chi desidera sperimentare la panificazione naturale a casa, imparando a comprendere il ritmo vivo del lievito e la materia del grano.
Un’estensione naturale della loro filosofia: connettere, educare, restituire valore al gesto.
KEIT KREUZBERG - PH ROBERT RIEGER
KEIT KREUZBERG - PH ROBERT REGER
Nel nuovo spazio di Keit Kreuzberg, progettato da Studio Michael Burman, il design esprime totalmente lo spirito con cui è nato il progetto. Al centro, una macina in pietra tagliata in tre segmenti ondulati funge da banco vendita, una metamorfosi perfetta tra passato e presente. Simbolo originario della panificazione, questo oggetto antico non è esposto come reliquia, ma trasformato in strumento quotidiano: un ponte tra la memoria del grano e l’atto contemporaneo del fare. La pietra dialoga con l’acciaio inox e il legno di douglas, creando una tensione materica tra caldo e freddo, ruvido e liscio, tradizione e innovazione. Le pareti rivestite in carta washi fatta a mano, insieme alle lampade organiche che ne riprendono la texture, filtrano la luce come una sostanza viva, trasformandola in materia. Un equilibrio sottile tra artigianato e precisione industriale, dove ogni dettaglio celebra il gesto manuale nell’era digitale.
KEIT KREUZBERG - PH ROBERT REGER
Notes from makeyourhome
→ KEIT è un esempio di come il design degli spazi alimentari possa diventare un gesto culturale: estetica e responsabilità si fondono in un racconto di autenticità e territorio.
→ La bellezza non è più nel decorare, ma nel rendere visibile il processo: il grano, la terra, il pane.
→ “Local” non come limite, ma come linguaggio.