Riconoscersi
Riconoscersi | Il confronto aiuta a definire chi siamo. Attraverso l’identificazione o il rifiuto di certe caratteristiche costruiamo la nostra identità. “Sono come lei” o “mi ritrovo in queste parole”, dirlo ad alta voce mi consente di validare il percorso. Arriva quasi sempre in modo casuale: una mostra, una lettura o un’immagine che mi lascia in silenzio per qualche minuto, e mi racconto che lì dentro c’è anche un po’ di me. Quest’anno è successo più di una volta e dietro ci sono due donne e un uomo a rafforzare l’ esperienza da cui nasceranno poi i miei progetti.
L’ inizo dell’ estate 2024 ha coinciso con la felice conoscenza di Inga Sempé. Se la mostra la casa imperfetta è stata l’occasione di incrociare i pensieri con una visione dell’abitare non preconfezionato che tanto mi appartiene, è stata la lettura del volume pubblicato per l’omonima mostra in Triennale a lasciarmi sospesa tra l’immaginario e il vissuto. Dopo un antefatto che racconta l’allestimento e le motivazioni che hanno spinto a raccontare il lavoro della designer attraverso un percorso che ci fa entrare nelle stanze di una casa apparentemente vissuta fino ad un attimo prima, la Sempé si racconta:
Quando una giornalista del "New York Times" mi scrisse nel 2004 per chiedermi un'intervista fui molto sorpresa ma soprattutto preoccupata. Lavoravo in un minuscolo angolo studio ricavato nel mio appartamento. Era uno spazio allargato nel corridoio, credo fosse un armadio al quale erano stati tolti gli sportelli. L'unico tavolo che potei sistemarci dentro era di quelli traballanti usati come supporto per spalmare la colla sulla carta da parati. Era tutto molto angusto e per arrivarci bisognava attraversare la cucina, il che non era affatto professionale. Temevo che vedendo questi spazi la giornalista avrebbe perso ogni interesse: non la conoscevo e non sapevo come avrebbe reagito. Per un attimo pensai di darle appuntamento in un bar. Magari si immaginava uno studio come quelli che spesso si vedono nelle riviste: uno spazio ampio, bianco, pulito come uno studio chirurgico o un museo senza oggetti. Ma poi cambiai idea. Meglio sapesse la verità, cioè che lavoravo da sola, in uno sgabuzzino, senza particolari strumenti né tirocinanti. L'articolo descriveva la mia casa in questi termini: "Plissettature ovunque nel piccolo studio all'interno dell'appartamento a nord di Parigi. Tende bianche a fisarmonica, un para lume grigio scuro sulla scrivania. L'appartamento, che condivide con il figlio di sei anni, non è né una camera di lusso né un paradiso del design. La cucina è obsoleta e dotata di soli tre fornelli a gas. La scrivania di Sempé è un pannello in truciolato posizionato su un cavalletto di metallo. Si lamenta del quartiere, così degradato da essere pericoloso quando la sera torna a casa a piedi".
L’ho immaginata, l’ho trasportata nella mia vita, ne ho dedotto le caratteristiche di una donna concreta che ama definirsi come un’idraulica del design, con tutte le sfaccettature e le fragilità di una donna vissute attraverso le plissettare e le forme morbide.
"Il mio" dice la designer, "è un approccio che proviene dalla vita quotidiana, dalla frequentazione dei mercati, in qualche modo dalla consapevolezza che molti dei nostri gesti dipendono dagli oggetti. La loro qualità formale incide sulle abitudini, sull'automatismo delle azioni.
Un quadro romantico ma non cinematografico bensì reale. Lo stesso che proietterò leggendo la storia della designer e artista svedese Åsa Jungnelius.
"My home is more than a physical space - it's like an extension of myself," inizia così un articolo su THE NEW ERA MAGAZINE, comprato nel mio viaggio a Stoccolma. Non conoscevo la Jungnelius e il suo mondo creativo è molto distante dal mio, eppure l’approfondimento ha portato alla luce un mondo di somiglianze che mi hanno lasciato in quel famoso silenzio meditativo per qualche istante. Mi sono fermata testualmente qui:
La mia casa è come un corpo in più per me. È qualcosa che mi tiene in piedi. È in qualche modo strano, una materializzazione estesa di me come persona. Dal momento che ho il mio studio a casa e ce l'ho da molto tempo, la casa e il posto qui, riflettono anche ciò a cui sto lavorando in studio, o ciò che mi interessa ora. Ci sono un sacco di cose parallele che accadono nello stesso momento in qualche modo. Come ora mio figlio Sten è appena tornato a casa da scuola ed è impegnato in soggiorno mentre io sono al lavoro anche se sono seduto in cucina. È sempre così tutto si fonde insieme, anche se c'è una struttura e una professionalità. È così che deve essere se vuoi diventare un artista e avere una famiglia
Questa newsletter era partita con tutte le buone intenzioni di raccontarvi come è nato il progetto del fuorisalone 2025 le cose di ogni giorno e si è trasformata in un inno alle donne e alla capacità di far convivere in una vita creativa, la casa, la maternità e il lavoro. Ho pensato anche che fosse sintomatico, che percorsi di vita simili portassero a riflessioni congruenti.
Ma torniamo alle cose perché pochi hanno compreso che il giallo usato nella grafica di questa design week aveva una reference più elevata di un classico trend, Le cose di Perec, l’uomo che mancava a questo racconto. L’indizio c’era ma volutamente non è stato dichiarato.
Le cose. Una storia degli anni sessanta. è il romanzo d’esordio di Georges Perec. Un libro pieno di cose: stanze sovrabbondanti di oggetti, dettagliate descrizioni delle case abitate e di quelle desiderate dai protagonisti, vestiti, negozi in cui comprare. I protagonisti, studenti squattrinati, inseguendo il sogno di una vita agiata, abbandonano gli studi e iniziano a lavorare nelle ricerche di mercato. Riuscire a possedere determinati tipi di oggetti significa diventare qualcuno, avere un determinato status. La loro non è solo una ricerca di elevazione sociale, essi chiedono alle cose di operare in loro, per forza e magia, una metamorfosi: cercano di avere per essere. Un libro che racconta il difficile rapporto con gli oggetti degli ultimi sessanta anni, l’uomo vive la relazione con gli oggetti come un’estensione di se con un comportamento compulsivo. Le cose e le case, due macromondi tra cui mi muovo e in cui mi riconosco ogni giorno.